Ci vuole talento anche per fare un omicidio. Bisogna progettarlo, avere un piano. Soprattutto se non improvvisi, ma ci pensi da giorni, forse mesi, e lasci che quel tarlo ti scavi nel cervello come un bruco, fino a infettare tutto, fino a diventare la folle soluzione ai tuoi problemi. Ma d'impegnarsi R., 16 anni, e M., 17, amico e complice, non avevano mai avuto l'attitudine. Nessuna voglia di studiare, nessuna intenzione di andare a faticare. Passavano le giornate tra la piazzetta e il bar, in quelle strade desolate del ferrarese dove d'inverno si gela e l'orizzonte è inghiottito dalla nebbia. Una birretta, un po' di fumo, due sgommate sullo scooter, la Playstation. Le ore passavano così, a fare niente. E a straparlare su come svoltare.

Hanno ammazzato i genitori

Così alla fine l'hanno fatto. Hanno ammazzato i genitori di R. Con poca tattica e zero ripensamenti. Come un compito in classe studiato male. Tre colpi d'ascia al padre, sei alla madre. Non hanno neanche avuto il tempo di reagire, quei poveretti, dormivano. Ha fatto tutto M. per 1.000 euro, 80 in anticipo. R. non se la sentiva. Apatico persino come mente criminale. Hanno infilato le teste dei cadaveri in due sacchetti e li hanno lasciati uno in garage, l'altro in cucina. Troppo pesanti per buttarli nel fiume. Poi sono scappati. Le ore seguenti sono un elenco di passi falsi e bestialità. Fino alla denuncia di furto in casa: senza nessun evidente segno di effrazione. Sono ragazzi, non c'hanno pensato. Come se fosse una zingarata o un tentativo di bigiata andato male. Invece ci si giocano la vita.

Un'ascia non è un'arma qualsiasi

Chi li ha incontrati nel carcere minorile del Pratello dice che sembravano come inebetiti. Quasi che non si fossero resi conto di essere stati loro a fare quello scempio. Ci vuole molta rabbia per sterminare qualcuno con un'ascia, non è un'arma qualsiasi, fa sfracelli. E infatti R. ne aveva tanta in corpo, che covava. Contro la madre soprattutto perché gli urlava contro tutti i giorni e lo stressava con quella storia della scuola e la minaccia di mandarlo a lavorare. Solo che R. è il mandante, non l'esecutore. Chi ha alzato la lama contro i due è stato M., l'amico inseparabile. E lui che rabbia aveva? La rabbia del fratello, grave disabile, che si prendeva tutte le attenzioni? La rabbia del confronto? Lui senza un soldo, figlio di contadini, l'altro col portafoglio pieno e i genitori con trattoria ben avviata? O cosa? Davvero ha ucciso solo per denaro?

Si dirà che è colpa del vuoto di valori

Si dirà che è colpa del vuoto di valori. Dell'edonismo arido della generazione reality. Ma di giovani sterminatori dei propri familiari la cronaca ne ha registrati già in passato: Erika e Omar (2011), Guglielmo Gatti (2005), Pietro Maso ('91), solo per ricordare i più famosi. Per questo non faccio analisi e non cerco colpe, mi limito solo a una riflessione. R. "pativa" sua madre perché gli ricordava il suo fallimento: essere giovane e non farsene niente, girare a vuoto. Senza ambizioni e senza progetti. Un figlio di cui non andare fieri. La frustrazione genera rancore. L'assenza di strumenti per gestirla odio, che può tramutarsi in furia omicida. I crimini più efferati del nostro tempo da questo nascono, anche se fanno vittime diverse. L'uomo che uccide l'ex perché non accetta di essere lasciato. Il lupo solitario che si lancia con il camion sulla folla per vendicarsi di una vita ai margini. Forse R. voleva solo una vita facile e senza pensieri, come molti hanno scritto. Ma una vocina dentro gli diceva che non si ha niente per niente. E l'ha azzittita.