Ho cominciato il 2017 nello stesso modo in cui avevo concluso il 2016: fantasticando sul decesso di quelli del quarto piano. Ormai è diventata una gag da dopocena: dicci, come hai pensato di ucciderli questa settimana? Quante volte ti hanno svegliata? Sono partiti per il weekend? Che ci troveranno da ridere, quegli stronzi dei miei amici. Vorrei vederli, se il loro soffitto fosse il pavimento di gente che per diletto sposta mobili.

Quando ero piccola, mio padre rientrava a casa a pranzo e, prima di tornare al lavoro, faceva un pisolino. Una volta mi azzardai a mettermi a giocare nella stanza vicina a quella in cui dormiva. Fu per la reazione di mio padre che, anni dopo, a scuola, capii immediatamente che cosa voleva dire quel verso sull'ira funesta. E fu allora che giurai che non sarei mai diventata come quel mostro: il mio sonno non sarebbe mai stato sacro. Naturalmente ho fallito, come tutti quelli che s'impegnano a non assomigliare ai genitori: ogni mattina alle sette e mezza, io divento mio padre.

Diversamente da mio padre, che aveva il sonno immediato e profondo dei bovini, io ho ottime scuse, e ragioni assai ragionevoli. Il mio sonno è fragile. Il mio sonno è scarso. Il mio sonno è raro. Ci sono notti in cui non mi addormento magari fino alle 6, e alle 7 e mezza quelli iniziano a strisciare cose sul pavimento. (Cosa strisciano a quell'ora? Il comodino per scansare la sveglia?). Le ore successive hanno sempre la stessa trama. Si comincia imprecando e fantasticando circa i modi migliori di eliminare il problema (se do fuoco al loro appartamento poi l'incendio s'attacca al mio? Se fingo amicizia e porto in dono un pandoro avvelenato c'è speranza che ci caschino?). Si prosegue con una botta d'ottimismo: vabbè, ma magari mi riaddormento. Dopo un'ora a rigirarmi, in genere mi arrendo e mi alzo. Dopo un'altra ora in cui vago per casa troppo rimbambita per scrivere una frase di senso compiuto o lavare un bicchiere, riprovo a mettermi a letto. A quel punto in genere crollo addormentata ma vengo quasi subito svegliata da altri spostamenti di mobilia (cosa vi svegliate alle sette e mezza a fare, se a mattinata inoltrata siete ancora a casa?).

Angoscia è un film del 1944 in cui Charles Boyer sposa Ingrid Bergman solo per rubare i gioielli della sua defunta zia, che dovrebbero essere in soffitta. Ogni notte va a cercarli di nascosto; quando la moglie gli dice che sente dei passi venire dalla soffitta, le dice che è pazza. Un po' alla volta anche lei si convince di stare perdendo la testa, il che lo rende piuttosto soddisfatto: se riesce a farla internare, potrà finalmente recuperare i gioielli in pace. Dopo un sabato notte natalizio d'insonnia, ero finalmente crollata all'alba. Poco dopo eccola, la sedia – o quel che è – strisciata sul pavimento: sono salita, determinata a dirgliene quattro. Mi sono trovata davanti una coppia di Charles Boyer, tutti e due con le pattine. Non abbiamo sedie. Lei è isterica. S'immagina le sedie. È esaurita, si curi.

Non hanno sedie. Saranno dei fricchettoni. Ne avessero, farei loro dono di un pacco gigante di feltrini, quelli che le persone civili mettono sotto la mobilia da spostare, se non residenti al piano terra. Ma loro vivono in una casa vuota. Sono io che m'immagino sedie, gioielli, e pandori spolverati di cianuro.