C'è stato un giorno, non molto tempo fa, in cui ho desiderato essere la madre di Justin Bieber. È la prima volta che mi capita di voler essere la madre di qualcuno, invece che la sua ragazza. Segno 
che sto invecchiando, e che non ho inclinazioni da cougar. È successo una sera guardando per caso in tv un documentario sulla sua vita, nel quale era ancora più ragazzino di quanto non sia già, ma faceva cose da adulto. Tipo scrivere canzoni, fronteggiare manager assetati di soldi e platee assetate di lui. 
Non era ancora la star capricciosa di oggi, era solo un bambino. Un bambino talentuoso, con le braghe larghe e tanta forza di volontà. Mi sono immaginata di tornare a casa e non dovergli chiedere : «Hai fatto i compiti? Quanto hai preso a storia?». Non pormi il problema del suo domani, di come prepararlo alle verifiche e alla vita. Ci aveva già pensato da solo.

I millennial bimbominchia famosi a 15 anni

E così, all'improvviso, ho riconsiderato tutta la faccenda. Questa dei millennial bimbominchia che diventano famosi a 
15 anni, e dopo i 20 hanno più fan di Frank Sinatra a 70. Fan fedelissimi che 
li seguono ovunque, non solo ai concerti, ma in tutte le cose belle o sceme che postano sui social, la loro vita in diretta. Perché è vero che la Rete è democratica, ma pure impietosa. Se hai cose da dire e sai come dirle, ti dà l'occasione. Justin Bieber ha 77 milioni di seguaci su Facebook e 87 milioni su Twitter. Senza i social sarebbe comunque diventato il «miglior artista emergente» per due anni consecutivi e l'under 25 più ricco del mondo, ma anche il Web è servito. Senza la Rete, certamente non esisterebbe Shawn Mendes, musicista canadese per cui le nostre figlie si strappano i capelli a ciocche. E nemmeno Cameron Dallas, così bravo su Vine, che non si è preso neanche la briga di cantare. Le fanciulle lo amano così: perché ci sa fare. Ha sfracelli di follower su tutti i suoi account 
e a fine dicembre debutta con una reality series su Netflix, Chasing Cameron.

Il mondo è cambiato il pezzo di carta non basta più

L'ho conosciuto alcuni mesi fa a una cena di Dolce&Gabbana e me ne sono innamorata. Come s'innamora una madre dei bravi ragazzi, ma pure una figlia se uno è fico, pur senza avere inclinazioni coguare. È una persona aperta, gentile, socievole, grata alla vita per quello che ha. Durante la campagna della griffe a Capri, con un plotone di altri noti coetanei, pare abbia fatto amicizia col mondo. È stato affabile e generoso, anche quando l'abbiamo incontrato per l'intervista che trovate in questo numero. Perfetto testimonial di una generazione che ha forse meno prospettive di quella precedente ma si dà da fare, perché ha capito che se non s'ingegna resta al palo. Lo dicono i dati dell'ultimo rapporto Ocse, secondo cui i vecchi sistemi per farsi strada nella vita – il famoso pezzo di carta – non bastano più. Il mondo è cambiato, sono cambiati mestieri e professioni, occorrono altre qualità: l'abilità di comunicare e risolvere problemi, la creatività, lo spirito di squadra. Gli inglesi le chiamano soft skills.

Senza i giovani non c'è futuro

Ma soprattutto serve sognare in grande. Non fermarsi davanti a niente, neppure quando la vita ti fa lo sgambetto. 
Ce lo ha spiegato Bebe Vio, che abbiamo intervistato al termine di un anno straordinario. Speriamo sia di monito a tanti suoi coetanei. Il numero 48 di Gioia! con lo speciale regali di Natale, in edicola da giovedì 8 dicembre 2016, lo abbiamo dedicato a loro. Perché non c'è futuro senza la forza propulsiva dei giovani. Non spegniamola. Il futuro è incerto, e abbiamo solo loro.