Sono stata punita. Ben mi sta. Così imparo a irridere per anni le amiche con prole, quelle il cui principale problema sono i gruppi WhatsApp dei genitori, quelle che si dicono vittime delle messaggiatrici pazze pronte a lamentarsi per decine di righe del costo della gita, del menù della mensa, delle attività sportive. Così imparo a reagire come il peggior maschilista: secondo me te la sei cercata. Anni ad accusarle d'essere complici – sì, certo, tutte ti notificano il loro parere sui compiti di matematica 100 volte al giorno e tu silente: figuriamoci. È chiaro che sei complice, che anche loro avranno delle amiche sterili cui dicono di te: sapessi quella pazza quanti messaggi manda. Anni a dire che non era possibile. E poi. E poi ti ritrovi in un gruppo WhatsApp. Il tema non è la prole, ma la prima cosa che capisci è che il problema non sono le mamme: è il gruppo che tira fuori il peggio dagli umani. Sono stata aggiunta al gruppo WhatsApp di una redazione, e ho visto cose che le mie notifiche non avrebbero immaginato mai.

Ho visto maschi ultracinquantenni rispondere a ogni messaggio con una sequela senza senso di emoticon: faccette che piangono e ridono contemporaneamente, mani che applaudono, meretrici che ballano. Tutte a gruppi di tre; dev'essere quel tremolio degli anziani: vogliono schiacciare la faccetta che piange dal ridere una volta, gliene scappano tre. È una delle molte ragioni per cui bisognerebbe vietare gli emoticon a chi abbia più di 19 anni. E poi decine di «ok» in risposta a qualunque ipotesi di lavoro (cosa rispondi «ok» a fare, che hai visto il messaggio lo so, c'è la doppia spunta, rispondi se hai obiezioni).

E poi i messaggi vocali. A cosa servono? A risparmiare sullo scatto alla risposta? A non farmi mai sapere cos'hai da dirmi, perché ora sono in pubblico, non posso ascoltarlo, lo faccio poi, e poi ovviamente mi dimentico? L'anno prossimo, il Nobel per la pace datelo a quello che ha inventato il tasto «silenzia le notifiche da questo gruppo».