Sul New York Times il giornalista Nicholas Kristof, vincitore di due Pulitzer, si è posto una domanda scomoda e terribile: la morte del nostro cane ci commuove più di quella di un bambino ucciso in Siria? La riflessione nasce dalla perdita della sua amatissima Katie, un golden retriever di 12 anni, seguita da un fiume di messaggi di condoglianze ricevuti dai lettori. Mentre nelle stesse ore il suo appello alla comunità internazionale perché provi a fermare una guerra che ha provocato quasi mezzo milione di morti ha riscosso sul blog commenti «all'insegna di una dura indifferenza».

Il silenzio dell'Occidente sulla tragedia siriana è impressionante. Aleppo è sepolta dalle bombe, eppure le immagini strazianti di bambini uccisi non riescono a scuotere la nostra apatia. La pace sembra impossibile: russi e americani, anziché allearsi per sconfiggere lo Stato islamico, si ostacolano. Mentre l'esercito di Damasco polverizza interi quartieri con i suoi terribili barili bomba. Dei siriani si parla, in Europa, solo per via dei profughi, sgraditi nelle nostre città.

E il risentimento dei popoli vicini, travolti dalla guerra, cresce ogni giorno di più. «Se vi si ammala il gatto, voi europei non dormite la notte. A noi ammazzano tutti i giorni i nostri figli!», mi ha gridato a Baghdad una donna che aveva appena perso suo figlio nella strage dell'Isis al centro commerciale di Karrada, che il 3 luglio scorso ha provocato 324 morti. Non poteva riassumere meglio, quella madre, la nostra incapacità di piangere i morti degli altri.