Chissà che brutta estate ha passato quella che al liceo aveva respinto sdegnata le avance di Fabio Rovazzi. So che ce n'è una, ne sono certa: una che si scansa quando il compagno di classe che sembra il ragionier Filini col paltò tenta di baciarla, e pochi anni dopo se lo ritrova a 60 milioni di visualizzazioni, attraente come solo il successo sa renderti, sexy come solo uno che induce una nazione a rivendicare d'andare «col trattore in tangenziale».

Dice un amico mio saggio che mica è un fenomeno nuovo: c'è sempre stato il tormentone estivo fra il varietà e la canzone, con una frase facilissima da memorizzare, fintamente stupido o fintamente intelligente – non importa, perché mica c'è differenza di meccanismo tra Il ballo del qua qua e La terra dei cachi. Il mio amico mi prega di non fare il suo nome, sapendo in quanti fan di Elio gli toglierebbero il saluto, loro che si sentono molto più sofisticati di noialtri che abbiam passato l'estate scrollando le spalle come scemi e giurando che andavamo a comandare (truppe di cerotti per la cervicale bloccata dopo il balletto, comandavamo).

Dice un'amica mia quasi altrettanto saggia che una volta i figli si facevano per avere la scusa per andare a vedere i cartoni, e ormai che i cartoni sono più per grandi che per piccoli quasi non c'erano più scuse per riprodursi; ma per fortuna è arrivato Rovazzi: almeno puoi dire che, se canti tutto il giorno che fai «i selfie mossi alla Gué Pequeño» (qualunque cosa significhi), è perché te lo chiedono i bambini.

Dico io che Rovazzi è un genio perché ha capito che, data la diffusa smania protettiva dei genitori italiani, la ricetta del tormentone perfetto era chiara: serviva una canzone in cui si dicesse «non mi fumo canne, sono anche astemio». Una canzone che i genitori italiani non vedessero l'ora di far cantare ai figli piccoli. Preparandosi a un'adolescenza in cui praticare, invece del divieto, la madeleine: «Ma come, non ti ricordi a cinque anni com'eri contento di cantare che eri astemio?».