Voglio un Brexit anch'io. Non per andarmene dall'Europa: per tutto il resto. Dovrebbero fornirci una via d'uscita da situazioni che ci tocca sorbire senza che nessuno ci abbia chiesto di mettere una crocetta su una scheda: magari decido di restare, ma chiedetemelo. Un Brexit che mi chieda se voglio o no ricevere inviti a matrimoni, compleanni, weekend in campagna: facciamo un referendum, così una volta per tutte metto la croce sul no, voi smettete d'invitarmi, io smetto di sfilarmi con scuse qualsiasi, voi smettete d'offendervi se non mi sforzo di trovare scuse più credibili di «Il mio bisnonno s'è rotto il femore facendo free climbing». 

Un Brexit che mi chieda se voglio o no ricevere mail da uffici stampa che, spiegandomi che mi leggono sempre e che questo è proprio il tema di cui piace scrivere a me, mi propongono l'anteprima d'un documentario sulla pesca con la mosca acciocché io ne possa scrivere su – e a quel punto nominano un giornale sul quale non scrivo da quando c'era la lira. Un Brexit che mi chieda se dare per scontato che qualunque «Ma certo che vengo» detto con tre mesi di anticipo sulla data sia da considerarsi non valido. 

Un Brexit che mi dia modo di ufficializzare la più importante delle regole non scritte, quella per la quale ogni impegno è disdetto se piove o se fa troppo caldo. Un Brexit dal cambio degli armadi: volete farlo o rinunciare per sempre? La seconda, grazie. Un Brexit che sospenda temporaneamente la monogamia quando ci sono davvero troppe partite di calcio perché una donna possa sopportare un tifoso sul proprio divano. 

Un Brexit dalle scadenze di fine giugno, che ogni anno ti fanno passare il mese a cercare scontrini di farmacie e ricevute di alberghi da portare al commercialista che – senza alcun rispetto per il tuo aver recuperato pezzi di carta da dietro ai fornelli, da sotto al divano, da valigie mai disfatte – senza alcuna pietà ti dirà che gli scontrini unti non te li fa detrarre. 

Una via d'uscita. Fatemi mettere la crocetta, per favore.