Io me lo merito. È una frase che ho imparato a usare da poco. Me ne sono accorta di recente quando, presentandomi nel corso di un premio a uno scrittore di un certo successo che, per fare il galante, mi ha detto: «L'hanno scelta come direttore di Gioia! perché è bella?», ho risposto di getto: «No, perché sono brava». Registro il fatto per due motivi: superati gli "anta" i complimenti da parte di maschi etero diminuiscono proporzionalmente all'avanzare degli anni, dunque è concesso vantarsene, anche se sono un po' gonfiati e di circostanza (la verità è uno sport che si pratica da giovani). Secondo: avrei tanto voluto rispondere «Sì, certo!». Perché dopo una certa età, la bellezza non sembra più una cosa da oche di cui vergognarsi, soprattutto quando non è la propria dote principale e si è bisticciato molto con lo specchio in gioventù. Invece, mi è scappato «Sono brava» e mi ha lasciato persino più sorpresa. Perché mi è partito così, senza preavviso, come uno sparo da una pistola che credevo caricata a salve.

Ci si carica di troppe responsabilità

Che noi valiamo, come diceva lo slogan di un noto brand cosmetico, lo sappiamo. Ma non siamo abituate a dir(ce)lo, essendo fin da piccole educate alla misura e alla modestia. Come se riconoscere il proprio valore fosse peccato, una manifestazione di superbia e presunzione, una cosa che proprio non si fa. L'esercizio quotidiano al non tirarsela ci porta in genere tutta la vita a minimizzare le nostre qualità, a darle per scontate, a vergognarcene persino un po'. Con tutti i risvolti boomerang del caso. Ci si carica di responsabilità e fatiche senza farlo pesare. Si dà a fondo perduto senza pretendere niente in cambio. Non si chiede mai. Oppure si chiede senza convinzione, sapendo in partenza di non poter ottenere ciò che ci spetta. Un compenso più giusto, un ruolo più idoneo, un aiuto quando serve o almeno – diamine! – un po' di gratitudine e riconoscenza. Perché la faccenda del merito non si limita e non si risolve in un semplice scatto di stipendio. Sono tante le cose che meritiamo nella vita, compresa un'accoglienza trionfale la sera dopo una giornata di riunioni e di stress, invece dei soliti musi lunghi. Si invoca tanto la meritocrazia, ma poi ci si dimentica anche di questi piccoli riconoscimenti quotidiani.

Non c'è un solo modo di essere brave

Quello che manca è una "cultura del merito", che vuol dire equa ricompensa per quello che si fa. Contando tutto il carico di fatica, impegno e bravura che ci (si) mette. Ma com'è possibile misurare tutto questo? In pieno periodo di prove Invalsi, sappiamo che il tema è caldo e foriero di polemiche. Bastano delle schede per valutare le capacità dei nostri figli? E un giudizio sulle abilità cognitive non è limitante per giudicare il valore di una persona nel suo insieme? (ne parliamo a pag. 57). Io credo che da qualche parte bisogni pur cominciare. E che il valore degli esami – dai test delle elementari ai concorsi post laurea – non stia tanto nel voto finale (anche se conta pure quello, certo), ma nel fatto che ci costringono a testare le nostre particolari doti e facoltà. Che sono tante e variegate – intelligenza, concentrazione, attenzione, velocità, intuito, rigore, acume, sagacia, creatività, ingegno – ma possono portare allo stesso risultato se sono usate bene. Questo significa che non c'è un solo modo di essere bravi, ma tanti: ognuno deve trovare il suo. Sapendo che più ci si mette alla prova più si cresce, più si vincono sfide difficili più si è pronti ad alzare l'asticella. Una cosa che fa un gran bene all'autostima. E che da qualche parte ci porta sempre, anche quando i furbi ci tagliano la strada.