Quello che dovete sapere di me (Feltrinelli) è un caleidoscopio di giovani vite che si raccontano senza censure e costruiscono una accanto all'altra un'autobiografia generazionale ricca, complessa e sorprendente: quella dei nostri figli adolescenti. Il libro nasce da un progetto inusuale di ricerca sociale: nel 2014, alla Route nazionale degli scout (il raduno dei giovani dai 16 ai 20 anni, dedicato al tema del coraggio), fu chiesto ai partecipanti di raccontare la loro adolescenza, liberi dallo sguardo giudicante degli adulti, in una lettera anonima intitolata Quello che dovete sapere di me. Risposero in 900. 

Trovare un posto nel mondo

«Non le parole del saggio ai discepoli, ma dei discepoli al mondo», scrive Stefano Laffi dell'agenzia di ricerca sociale Codici e curatore del progetto. Se paura è la condizione più ricorrente – paura del futuro, di non essere all'altezza, di non trovare l'amore, di sapersi sbagliati o di non sentirsi abbastanza – la parola sogno è il suo contraltare: «Sogno di trovare un posto nel mondo (…) non aspettando che arrivi dal cielo, no. Mi rimbocco le maniche e agisco», scrive F. 18 anni. E si prosegue tra timori e speranze: «Riuscirò a mantenere una famiglia? Riuscirò a mantenere anche solo me stesso?»; «Ho una grandissima ambizione (…) Il mio sogno è diventare medico e lavorare con Emergency». In alcune di queste lettere c'è un coming out: «Penso di essere uno di quelli che chiamano gay»; «Non credo né in Dio, né in nessuna forma di ideologia, poiché le ideologie tendono a modellare gli uomini e a renderli tutti uguali»; «Nemmeno io riesco a capire chi sono realmente». Tutti si fermano con terrore davanti al nuovo moloch: il test all'università, che impedisce di studiare «secondo le proprie passioni».

Fragili ma combattenti

La pienezza che tracima dalle vite adolescenti trova negli elenchi una forma efficace di espressione e sono tra le pagine più belle del libro: «Amo riuscire a vincere con me stessa. Che è la cosa più difficile. Lanciare i sassi in acqua. Istanbul. I musei. I pranzi della nonna. Le rane. I cartoni della Pixar. La storia di Peter Pan. Raccontare storie. Fare tatuaggi con la biro (...)», (M., 20 anni). Gli adulti restano sullo sfondo, qui e là fanno capolino madri affettuose, divorzi che squarciano le illusioni o lutti che scavano vuoti incolmabili, ma la sensazione dominante è questo sentirsi fragili seppur "combattenti", necessitati a «trovare il coraggio di ricercare la propria felicità». 

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Una continua rivoluzione

In una delle rare lettere che parla a nome della collettività si legge: «Sono parte di una generazione che vive una costante rivoluzione (…) dei costumi, che ci ha resi diversi dalla generazione che ci ha preceduto; delle comunicazioni, che ci illude di essere più vicini, ma che ci lascia sempre più soli; una rivoluzione nel modo di pensare e di concepire la fede, la religiosità, la morale con orizzonti molto più ampi che il nostro campanile». Pagina dopo pagina, è forte la sensazione di entrare dentro la loro stanza non visti e scoprire che di questi adolescenti, in fondo, non sappiamo nulla. In compenso, come scrive Laffi nella bella introduzione, «sono giudicati a casa, valutati a scuola, selezionati in università, pedinati dal marketing, spiati nei social network, seguiti dai servizi educativi, (...) oggetto di diagnosi generazionali e ridotti a una formula, più di quanto avvenga a qualsiasi altra età». Il nostro sguardo si posa poco e male su di loro, eppure siamo convinti di poterli persino definire, meglio se con giudizi castranti. 

Spirito di esplorazione 

A questa superficialità si ribella anche qualche adulto. Filippo La Porta, giornalista e padre di un adolescente, è autore per Bompiani di un saggio dal titolo Gli indaffarati (in libreria il 5 maggio), un ritratto delle generazioni adolescenti animato da sincero spirito di esplorazione e non celata ammirazione: «Rispetto a noi sono meno ideologici e meno libreschi, più fattivi: credono a un'idea solo se si traduce subito in un modo di essere o in un comportamento. Oltre ad avere una sana diffidenza per discorsi nobilmente retorici». Però sono gli adulti ad avere il potere della parola e, rincara La Porta: «Sono loro che gestiscono i media sapendo che cliché di impatto "spettacolare", se ripetuti a oltranza, vengono accolti pigramente come verità». 

Commenta Laffi: «Un figlio non è mai una replica, una generazione non è mai identica a un'altra, tutti gli scarti dalla nostra visione del mondo ci paiono una deviazione e lo shock può essere così forte da portare alcuni adulti all'ammutinamento, all'invio dallo psicologo, o al controllo sui social network e a pedinamenti personali». Nell'ultimo mese, mentre in decine di licei i cani antidroga irrompono nelle classi e, a fronte di qualche sequestro, sulla maggioranza si sparge un insensato sentimento di aggressività e insicurezza, appare saggio assumere, come genitore e come adulto, lo stesso criterio metodologico che guida questo libro: «Facciamo allora un passo indietro, proviamo a sospendere il giudizio: chiediamo al ragazzo, ascoltiamo il racconto, scommettiamo sul suo protagonismo». C'è da imparare, prima di insegnare.