Ho paura di mia figlia. E lei lo sa perfettamente. Ho 55 anni e Sofia ne ha compiuti 17. So di non essere l'unica madre ad avere un rapporto difficile con un'adolescente, ma il mezzo gaudio non basta. Tutto è iniziato un sabato pomeriggio di tre anni fa, al Carrefour sotto casa. Aveva solo 14 anni ma era già materia infiammabile. Eccola che spinge il carrello con una mano sola mentre con l'altra risponde su WhatsApp. Di colpo si ferma al banco dei dolci e con sorprendente efficienza afferra quattro pacchetti di biscotti al cioccolato. Il lancio è un canestro perfetto nel carrello. Si gira verso di me: prova a dire qualcosa, leggo la sfida nel suo sguardo. Il tintinnio dei suoi braccialettini indiani copre la tensione. 

«Non ti sembra di esagerare?», chiedo, una volta alla cassa, mentre lei soddisfatta fa rotolare il bottino. Il mio tono è pacato, tipico di chi ha inserito la retromarcia. Mi accorgo di essere molto stanca. Ecco, è stato proprio allora. In quel lasso di tempo brevissimo che ha separato la mia domanda dalla sua esplosione rabbiosa, Sofia mi ha scippato gli ultimi spiccioli di credibilità. Una volta certa di avere tutti gli sguardi su di sé, eccola improvvisare un clamoroso dietrofront, facendosi largo tra la gente con tutti i pacchetti di biscotti tra le braccia, come cuccioli da riportare al canile. E con voce incrinata dal pianto, l'affondo definitivo:
«Vuoi metterti in testa che non sarò mai fottutamente magra come vorresti tu?». È fatta. 

Esce dal supermercato lasciando una scia di vittimismo contagioso. E la sottoscritta giustiziata in pubblico, di fronte a studentesse in short, pensionati con i pantaloni a vita altissima e casalinghe composte con il carrello scozzese.
Sento il formicolio della disapprovazione scendere lungo la schiena. Un signore anziano azzarda: «Ma non vorrà una figlia anoressica?». Mi giro assediata dai sensi di colpa. Vorrei gridare che l'anoressica sono io, denutrita, senza più forze, né un briciolo di energia. Ma faccio finta di niente, pago e scappo.

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Persino la spesa al supermercato si trasforma in terreno di scontro

Ripeto, non sono l'unica madre bullizzata. Ma c'è chi è riuscita a cavarsela dignitosamente. Vuoi con l'aiuto del marito, o la collaborazione dello psicologo. Anch'io ho tentato con l'analisi. Ma sono partita con il piede sbagliato: era tale l'ansia di tornare a casa dalla mia aguzzina che ho perso più tempo a guardare l'ora che ad ascoltare il terapeuta. Già alla prima seduta lui era stato chiaro: «Lei è terrorizzata da sua figlia». Ecco la pila che illumina la madre sui fondali dello smarrimento.
«È laggiù, la vedete? È livida, povera donna». Confesso di essere regredita a livelli di infantilismo tali da immaginare il mio funerale, come una tredicenne. E Sofia in lacrime, con i capelli arruffati dai rimorsi. Ho invertito clamorosamente i ruoli, infilandomi nel suo onirico da adolescente («Mamma, che ci fa qui? Sono io che sogno di vederti distrutta al mio funerale!»).

Qualche mese fa mi sono giocata quel poco che restava della mia reputazione, durante una lite furibonda sull'ora del rientro serale. Ebbene sì, lo giuro, ho fatto finta di svenire. E come in una telenovela spagnola («Candela... Que pasa!») mi sono accasciata a terra scivolando lentamente sul muro. Ero così presa dalla parte che sarei rimasta sul parquet per tutta la sera, sollevata da un'aura di commiserazione che aleggiava come un profumo d'ambiente. Ma Sofia, che vive guardando Grey's anatomy, dopo avermi piazzato due dita sulla giugulare, ha diagnosticato infastidita: «Mamma, la vena pulsa che è una meraviglia, alzati».

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Nemmeno l\'analisi mi aiuta

Non l'ho mai confessato neppure all'analista, sarebbe stato uno smacco anche per lui, ne sono certa. Figuriamoci per mia figlia. Come si può tollerare una genitrice commediante? Ammaccata dai continui tamponamenti con le contraddizioni, dai testacoda sui no che, giusto il tempo di avvitare la moka diventano: «Ok topina vai pure, però non fare tardi». Quanto invidio le madri assertive! Quelle che con uno sguardo e il tono della voce fanno capitolare le figlie. Certo, non sono tante, grazie al cielo, ma esistono. Le ho viste all'opera e ho sofferto come un cane. 

Ecco, Sofia me lo dice sempre che vorrebbe la mamma di Veronica, quella alta, sportivissima, con la coda strizzata dall'imperativo. Ma non è possibile. So svenire da Dio, ma se faccio la tosta non sono credibile. E questo non fa che alimentare la rabbia della mia aguzzina. «Sua figlia la sta implorando di fare la madre», insiste l'analista (Torna a bordo, c...! Come il comandante della capitaneria di porto gridò al telefono al capitano della Costa Concordia, il famoso Schettino). E ora, delusa, picchia duro come un pugile. 

Il colpo finale l'ha inferto il week end scorso, quando al telefono mi ha minacciata perché io, temendo se ne andasse in Francia dalla sua compagna fricchettona, le avevo nascosto la carta d'identità. «Se non mi dici dove l'hai messa, rompo il quadro che hai sul letto!». Ero in montagna con un'amica, ricordo di averle bisbigliato: «Aiutami, altrimenti fa uno scempio». Mi ha strappato il cellulare dalle mani: «Sofia vergognati, non ti permettere mai più di minaccciare tua madre». Pausa. «Ho detto mai più!». Fine della comunicazione.

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Lo scorso fine settimana mia figlia mi ha telefonato e mi ha minacciato

Che vertigine sentire il boato del divieto. Avrei voluto fare la ola. Attonita e felice, ho esclamato «Brava, così si fa!», come se la figlia non fosse mia. Ma per tutto il viaggio di ritorno ho vissuto con l'incubo di vedere il quadro squarciato pendere agonizzante sul lettone. Invece era perfetto.
E Sofia inspiegabilmente mansueta. Miracolo dell'autorevolezza che non consente repliche.

Dovevo capirlo prima: i sensi di colpa, l'ansia scarmigliata che mi stravolge i lineamenti sono combustibile per la pargola aguzzina. Lei non vede l'ora di cogliere nel mio sguardo la resa, per avanzare inesorabile come una smagliatura sulla calza. Lo psicologo, ormai esausto, insiste sulla parola comprensione. L'ultima volta, con gli occhi trasformati in fessure, mi ha parlato più lentamente del solito. Come a una donna che ha bisogno di leggere il labiale. Spiegandomi che per spegnere il bullismo di Sofia devo ascoltarla, darle fiducia. Facile. Ma se non credo più in me stessa, come faccio a trasmetterle fiducia? È tardi, la replica rimane in gola. Lo saluto e chiamo l'ascensore galleggiando in un dolore da impotenza. È il sapore definitivo della mia fragilità che mi spaventa. Torno indietro per dirglielo? No, meglio di no. Tanto l'ha capito benissimo.