Care amiche,

questo week end, partecipando a un congresso medico in cui si parlava anche di mindfulness, ho per l'ennesima volta toccato con mano la grande confusione che esiste sull'argomento. Molti occidentali che non hanno seguito un percorso di educazione spirituale, legittimati dai più disparati titoli accademici, usano nozioni acquisite per sentito dire (o per letture sommarie) e appioppano etichette inventate di sana pianta. L'ultima che ho sentito? «La mindfulness è la meditazione per gli occidentali, inventata da Jon Kabat Zinn».

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Ora, senza togliere al dottor Jon Kabat Zinn il grande merito di aver dato un impulso allo sviluppo della medicina comportamentale - che lega la malattia al comportamento e ai pensieri del malato - e senza nulla togliere alla validità dei suoi protocolli mindfulness based per la gestione dello stress e per la psicoterapia cognitiva, identificare la mindfulness con una tecnica, una meditazione o un protocollo di cura è come annusare un mandarino e dichiarare di aver mangiato tutta la pianta. O come grattare la punta di un iceberg e pensare di aver cambiato qualcosa nella montagna di ghiaccio che sta sotto.

Ridurre, incasellare, protocollare

Comprendo che, per noi occidentali, la necessità di incasellare tutto in concetti pre-definiti e attribuiti a questo o quell'autore sia consequenziale alla modalità logico-razionale che prevale nel nostro pensiero. Comprendo il bisogno accademico di nozioni, nomenclature e professoroni, ma è proprio questa modalità di conoscenza separativa ciò da cui la mindfulness rifugge e, solo distanziandosi, può fiorire. Uno stato 'mindful', infatti, è una condizione di piena presenza mentale nel qui e nell'ora in cui tutte le nozioni acquisite vengono 'buttate via'.

Come dice Thich Nhat Hanh illustrando la pratica del 'throw away', per arrivare alla mindfulness bisogna liberarsi da tutte le nozioni, le divisioni, le etichette, i giudizi. Mindfulness non è una meditazione o un protocollo: è uno stato dell'essere in cui la mente e il cuore sono concentrati in modo non giudicante sul momento presente e, proprio per questo, vedono/percepiscono quello che c'è in modo non più condizionato dalle conoscenze ed esperienze del passato né dalle aspettative e proiezioni per il futuro. Grazie a quest'opera di epurazione non giudicante e di focalizzazione disincantata, la mente acquisisce lucidità e il cuore diventa sereno.

Come ci si arriva? Attraverso un addestramento mentale che parte dalle meditazioni formali (quelle che si praticano sul cuscino da meditazione) e poi si estende a tutta la giornata rischiarando con la luce di una disincantata consapevolezza i gesti che più ripetutamente compiamo: vedere, udire, toccare, mangiare, camminare, parlare, riposare…

Nello stato di mindfulness si riesce a toccare con mano la realtà sotto il velo illusorio dell'apparenza e si 'sente' in modo vivido quanto essa sia impermanente, interconnessa e priva di un'oggettività autonoma. Il nostro io si scioglie lasciandoci liberi da tutte le convinzioni, le nomenclature, le etichette e i fregi, che sono gli elementi d'origine di ogni sofferenza.

Il rischio della riduzione

Ma che rischio si corre riducendo la mindfulness da stato dell'essere (frutto di un addestramento mentale costante) a mera tecnica? Le risposte hanno cominciato ad arrivare nel 2014, quando The Guardian ha riportato episodi di depersonalizzazione in alcuni pazienti trattati con questo 'metodo' in un ospedale londinese. Sradicate dai loro fondamenti etico filosofici e, soprattutto, dal cuore spirituale che nutre tutto il sistema, le pratiche che dovrebbero condurre alla serenità sembra che abbiano provocato ansia, panico, confusione e depressione.

Come spesso accade quando un fenomeno diventa moda, c'è stato un processo di forte superficializzazione.

Per 2500 anni mindfulness - che è la traduzione della parola 'Sati' (termine pali, la lingua in cui è stato scritto il canone buddista delle origini) ha significato 'piena consapevolezza nel momento presente' all'interno di un sistema filosofico ed etico che rispondeva in modo molto concreto ed immanente alle domande chiave dell'uomo: chi sono? Che senso ha la mia vita? Come posso viverla felicemente evitando di soffrire? Come devo comportarmi per arrivare all'estinzione di ogni sofferenza? Questa inter-azione sistemica è fondamentale perché per raggiungere ciò che tutti vogliamo – la felicità – la mindfulness interagisce con gli altri elementi che compongono l'Ottuplice Sentiero, le 8 strade individuate dalla psicologia buddista per l'estinzione di ogni sofferenza, e che sono la retta comprensione, la retta motivazione, la retta parola, la retta azione, la retta sussistenza, il retto sforzo, la retta concentrazione e la retta consapevolezza.

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La cima senza la montagna

La tecnica estrapolata dal sistema originario è stata 'funzionalizzata' per indurre il soggetto a non identificarsi con le emozioni negative e con il tumulto di pensieri che gli riempiono la testa. Ma, una volta capito che noi non siamo i nostri pensieri e le nostre emozioni, sorge una domanda: allora chi siamo? Come dice Thich Nhath Hanh, noi non siamo, noi Inter-siamo.

La vera consapevolezza ci fa uscire dai ristretti confini dell'ego riunendoci non solo con noi stessi, ma anche con gli altri, con il pianeta e l'universo intero. Non separa ma integra, arricchisce e completa.

Unisce il corpo con la mente e il cuore, il piano sensoriale con quello cognitivo comportamentale, relazionale e sociale, l'interno con l'esterno.

Liberandoci dal Sé non ci lascia nudi della nostra identità, ma la amplifica ridandoci un ruolo creativo in una visione pluri-possibilistica della realtà che è molto vicina a quella della fisica quantistica, che ha confermato a distanza di 2500 anni il concetto base del Dhammapada (cuore del canone originario buddista): la realtà cambia a seconda di come la pensiamo. Il punto è che produciamo oltre 60.000 pensieri al giorno senza esserne coscienti e lasciandoci trascinare da 51 tipi di formazioni mentali diverse (idee/ricordi/giudizi/associazioni/immagini…) come da treni su cui saliamo senza conoscerne la destinazione.

Quindi, se la mindfulness non è una panacea che cura ogni malattia, vivere mindful (come spiega egregiamente Thich Nhat Hanh nel bellissimo The Art of Mindful living) è una garanzia di libertà dagli automatismi che ci condizionano in modo svantaggioso. Reagire con rabbia, farsi prendere dall'ansia, lavorare troppo, mangiare troppo, innamorarsi sempre della persona sbagliata, essere amati da persone splendide e mandare tutto all'aria perché ricadiamo nei soliti errori…

Ogni comportamento sfavorevole può essere trasformato dall'energia della consapevolezza che, come la luce, senza lottare contro il buio lo trasforma in chiarore.

Il prossimo lunedì vi indicherò alcune app che possono aiutarvi a camminare con agio su questa strada. Intanto vi auguro buona settimana… in consapevolezza!

Con Amore

Grazia

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Grazia Pallagrosi, meditazione mindfulnesspinterest

Grazia Pallagrosi, giornalista e insegnante di Mindfulness, vive tra l'Italia e la Thailandia, dove conduce ritiri di meditazione e riequilibrio psicofisico.