Realizzato in collaborazione con l'Ordine degli Psicologi della Lombardia

Dott. Michele Mingione, Ordine degli Psicologi della Lombardia

Probabilmente, nell'ultimo periodo, vi sarà capitato di imbattervi nella coppia di "strane parole" citate nel titolo, spesso riproposte dalle cronache dei giornali o in trasmissioni televisive.

Forse, sentendo la prima di queste due parole, molti di voi avranno pensato all'ennesima pietanza giapponese di Sushi o a qualche "diavoleria" elettronica di importazione nipponica.

Volendo, non vi siete allontanati molto dal suo significato metaforico. Gli Hikikomori sono ragazzi (e non solo) che al pari di alcuni pesci, temendo le acque aperte, preferiscono rinchiudersi in piccoli acquari, confortevoli proprio come le loro "camerette". Quest'ultime solitamente sono super accessoriate con giocattoli che, nell'epoca dei nativi digitali, prendono la forma di dispositivi elettronici e tecnologiche che gli garantiscono una pseudo-vita virtuale attraverso il Web. Tanto che tali condotte vengono sovente scambiate per "internet dipendenza". Nel caso degli Hikikomori, tuttavia, la rete non è la causa dell'isolamento, ma lo strumento con cui tale chiusura si può realizzare.

Differente è il fenomeno che sta dietro l'espressione NEET. Più che una parola, è un acronimo inglese: Not (engaged) in Education, Employment or Training (non impegnato nello studio, né nel lavoro, né nella formazione). Tale sigla definisce quella ormai cospicua parte di giovani, sfiduciata circa la possibilità di trovare una collocazione lavorativa, che ripiega in una "nullafacenza" assoluta, anche se non priva di scambi relazionali e sociali.

Entrambi i fenomeni sono la trasposizione di uno stesso problema, la cartina tornasole di una mancata inclusione: il primo in chiave psicologica, ed il secondo in chiave sociologica. Se gli Hikikomori si rinchiudono volontariamente, a causa di un vissuto soggettivo di incapacità a corrispondere ad uno standard di funzionamento richiesto dalla società (in primis richiesto dalla famiglia), i NEET invece, vengono, non volontariamente, esclusi da una società ormai ipercompetitiva, che oggettivamente non concede loro molte chances di inserimento nel tessuto lavorativo.

Considerato ciò, è utile prestare maggiore attenzione ad alcune dinamiche familiari che potrebbero contrastare un atteggiamento di isolamento, anziché facilitarlo.

La componente familiare nel fenomeno dell'Hikikomori è palesemente visibile in Giappone, nazione in cui tale disagio si è manifestato indiscutibilmente prima che nel resto del mondo. Non a caso sono colpiti quasi esclusivamente i figli maschi e per di più primogeniti e/o figli unici, su cui le famiglie nipponiche, più che benestanti, ripongono particolari aspettative sociali. Tale situazione, per retaggio culturale, non si verifica nei confronti delle componenti femminili del nucleo familiare, in cui sono riposte aspettative più modeste.

Inoltre, esiste una significativa correlazione tra l'isolamento volontario ed un'assenza della figura paterna, a cui spesso si lega un sovrainvestimento da parte della madre iper-protettiva.

Gli studiosi degli Hikikomori, per meglio inquadrare il fenomeno, categorizzano tre stadi:

  • Il ragazzo inizia a percepire un desiderio di isolamento sociale, senza però realizzarlo consciamente. Prova malessere quando si rapporta ad altre persone, e ritrova un maggior sollievo nella solitudine;
  • Il giovane comincia a elaborare consciamente la pulsione all'isolamento e ad attribuirla razionalmente ad alcune relazioni o situazioni sociali;
  • La persona si abbandona completamente alla pulsione di isolamento sociale e si allontana finanche dai genitori e dalle relazioni sviluppate in rete. Sprofonda in un isolamento totale, aumentando vertiginosamente il rischio di sviluppare psicopatologie depressive e/o paranoiche.

Tali stadi non sono da considerare come un'escalation rigida verso la patologia, ma come un continuum dinamico, che può prevedere anche un'alternanza nelle diverse intensità.

Ovviamente le dissertazioni sulla patologia sono ampie, ma è possibile mettere a fuoco alcuni chiari spunti di riflessione, per meglio approcciare un eventuale comportamento di isolamento di un figlio:

  • È necessario mantenere quanto più possibile un dialogo aperto con i figli, porre delle domande aperte che possano permettere loro di poter esprimere dei pensieri e, ancor meglio, emozioni rispetto alla quotidianità che vivono, sia fuori che dentro l'ambito familiare;
  • Rivolgere spesso "domande triangolate" tramite cui poter esplorare il vissuto relazionale del giovane con i suoi coetanei (ad es. quando il tuo amico x ti ha trattato male, il tuo amico y come si è comportato?);
  • Cercare di capire quanto un comportamento di vostro figlio sia un voler andare verso un qualcosa, oppure un rifuggire da…;
  • dal momento che il disagio del ragazzo Hikikomori è dato dal carico di aspettative che lui sente da parte della famiglia, è necessario valutare l'impatto delle richieste familiari: quanto vadano nella direzione di favorire il ragazzo in una sua scelta o quanto siano espressa manifestazione di un aspettativa altrui;.
  • Mettersi in discussione come persona e come membro di una dinamica familiare. Se gli atteggiamenti tenuti fino a quel momento hanno portato il figlio ad isolarsi, sicuramente tali dinamiche andrebbero riviste, in modo da costruire nuove possibilità di sentirsi parte di un tutto. Non è importante la performance per raggiungere un buon risultato, ma come il gruppo famiglia lavori bene insieme;
  • è fondamentale sostenere la "persona" sempre e comunque: sia quando la si sta accompagnando verso un obiettivo sperato, sia quando la si sta rimproverando per un comportamento errato o non funzionale;
  • Mai utilizzare la forza o addirittura la violenza. Non porterebbero ad alcun risultato duraturo, ma servirebbero solo a traumatizzare e spingere il ragazzo, già portatore di disagio, verso un isolamento maggiore;
  • Per aiutare realmente un Hikikomori, bisogna dotarsi di molta pazienza, perché occorre comprendere fino in fondo le sue paure e cercare di riportarlo gradualmente alla vita sociale. Agendo, però, anche sul contesto di riferimento (famiglia e comunità);

Non da ultimo: molti genitori credono che se un figlio passa molto tempo nella sua "stanzetta" a giocare con un computer, consolle o cellulare, sia esclusivamente per una sorta di dipendenza dalla tecnologia. Nulla di più sbagliato! Se non si analizza l'aspetto di isolamento dal mondo sociale (percepito dal ragazzo come complicato ed inospitale, rispetto a quello virtuale accogliente e alla sua portata) si sminuisce molto il disagio del giovane, commettendo un enorme sbaglio di valutazione.